Angelo Tamborra (1913-2004)

Francesco Guida, “Rassegna Storica del Risorgimento”, XCI, 2004, IV, pp. 601-605

La scomparsa di Angelo Tamborra nel settembre 2004, mentre ha addolorato quanti, tra amici ed allievi, lo stimavano e gli volevano bene, sembra aver chiuso un’epoca per il settore di studi cui egli si era dedicato attraverso molti decenni. E’ noto che da un punto di vista formale, quale disciplina riconosciuta negli ordinamenti universitari, la Storia dell’Europa orientale nacque con lui (dapprima come incarico nel 1955, quindi come cattedra nel 1970) alla Sapienza di Roma, dove lavorò fino all’andata fuori ruolo nel 1983, nello stesso istituto di Romeo, Moscati, Morelli e De Felice. Prima di allora era trascorso un lungo periodo – che è possibile fare iniziare all’indomani della Grande guerra – in cui quella vasta parte del continente europeo che dalla sponda orientale dell’Adriatico si spinge fino agli Urali era stata oggetto di studi e di vario genere, inclusi quelli storici, con risultati anche di buona qualità, ma in forma poco regolamentata, nonostante l’esistenza di Enti di grande rilevanza ed efficace funzione quale fu l’Istituto per l’Europa Orientale tra le due guerre. Con l’emergere della figura di Tamborra come studioso e docente, con il riconoscimento di un preciso ruolo in ambito accademico alla materia che insegnava, si iniziò a tracciare un quadro di riferimento per quanti quegli studi storici volessero continuare o intraprendere. Da allora molto tempo è passato e la disciplina da lui inaugurata si è fatta più forte in vari sensi, pur avendo ancora bisogno di un’ulteriore “regolamentazione” (si pensi all’assenza di un Dottorato specifico a livello nazionale) e, come è naturale, dovendo adeguarsi alle novità che hanno fatto la loro apparizione nelle ricerche e nelle società: basta ricordare soltanto la fine dei regimi comunisti tra il 1989 e il 1991. Per tutto ciò è possibile affermare che con la dipartita di Tamborra si chiude un’epoca.
Egli non fu solo il fondatore di una disciplina, ma ebbe interessi molto vari. Se oggi la Rassegna storica del Risorgimento ospita un suo ricordo è perché dell’Istituto per il Risorgimento italiano egli fu valido collaboratore, con contributi alla rivista e alle collane monografiche, nonché membro autorevole in seno al Consiglio di Presidenza. Non è possibile ricordare tutti i saggi pubblicati sulla Rassegna, oppure i contributi ai congressi di storia del Risorgimento; è giusto però dire dei volumi apparsi nelle collane dell’Istituto: la biografia di Imbro Tkalac e quella di Josef Václav Frič introducono a due importanti figure dell’Ottocento slavo e centro-europeo, un croato attivo in Italia e un ceco impegnato nella promozione della propria nazionalità in seno all’Impero absburgico, poi austro-ungarico. Forse più “strana” è la figura di Ljudevit Vuličević, uomo che non riuscì mai ad avere un significativo peso sulle vicende politiche, ma fu testimone di un fervore spirituale del tutto particolare e di grande interesse. Sono tre esempi delle indagini che Tamborra (affascinato in modo particolare dagli esuli) infaticabilmente condusse nel mondo danubiano-balcanico del XIX secolo; però tanto altro egli fece in questo ambito, sul versante delle relazioni che furono intessute tra i protagonisti della rinascita nazionale dei popoli del centro Europa e dei Balcani con i personaggi maggiori e minori del Risorgimento italiano, da Mazzini e Garibaldi a innumerevoli altri. Non per caso il libro che rese conosciuto Tamborra fu Cavour e i Balcani, opera altamente innovativa alla fine degli anni cinquanta, sebbene influenzata – come osservò Clara Castelli – dagli studi di Franco Valsecchi sulla guerra di Crimea; un’opera alla quale è uso affiancare (in parallelo) quella coeva di Giuseppe Berti su Russia e Stati italiani nel Risorgimento. Tamborra aveva alle spalle (oltre alla collaborazione con l’Enciclopedia italiana Treccani, prolungata poi per più decenni) l’esperienza fatta come reggente della Biblioteca del ministero Affari esteri – durò dal 1952 al 1963 – ed era impegnato nella pubblicazione di una serie (la seconda riguardante gli anni 1870-1896) dei Documenti diplomatici italiani. Per lui la documentazione diplomatica era fondamentale; non per caso vinse il suo primo concorso da ordinario per la disciplina Storia dei trattati che insegnò presso l’Università di Perugia negli anni sessanta. Però egli seppe trascendere quella documentazione, coniugandola con lo studio appassionato delle realtà dei singoli popoli e Paesi, mediate dalle storiografie nazionali, né la usò soltanto per parlare di rapporti tra Stati. Reputo questa una delle principali lezioni da lui impartite e lasciate in eredità agli allievi. Peraltro quello stesso approccio bi-univoco lo si riscontra in suoi scritti che poco o nulla hanno a che vedere con materiali diplomatici. E’ quasi una riprova di questo suo approccio al mondo dell’Europa centro-orientale, l’aver meritatamente ricevuto la nomina a socio corrispondente dell’Accademia delle scienze di Serbia.
Sebbene tra i suoi libri vada ricordato anche Garibaldi e l’Europa. Impegno militare e prospettive politiche del 1983, un’altra opera in cui dimostrava la sua naturale propensione ad allargare ogni tema trattato verso la dimensione internazionale, Tamborra non fu solo risorgimentista, ma dedicò diverse ricerche ad argomenti di epoca moderna. Simbolicamente l’ultimo volume che volle pubblicare nel 2003 conteneva un’opera secentesca di Galeazzo Gualdo Priorato, Il guerriero prudente. Pubblicandola realizzava un suo antico progetto, convinto che lo scritto “pedagogico” di Gualdo Priorato avesse piena validità e notevole interesse per lo studioso dei nostri giorni; né la sua opinione era errata. Nello stesso filone modernistico, vanno ricordati almeno i volumi dedicati agli Stati italiani, l’Europa e il problema turco dopo Lepanto e al polacco Krzysztof Warszewicki, teorico della diplomazia ed “epigono” di Machiavelli. In ambedue i casi si aprivano allo studioso o al semplice lettore prospettive nuove o poco esplorate. In questo specifico campo di ricerca egli seppe farsi apprezzare anche dagli slavisti, non sempre soddisfatti dell’approccio filologico dei colleghi storici alla realtà culturale dell’Europa centro-orientale. Tale soddisfazione (espressa tra l’altro con il numero speciale della rivista “Europa orientalis” a lui dedicato nel 1983) non era frutto solo della grande sua preparazione linguistica e culturale, ma soprattutto dell’umiltà con cui, anche già maturo o anziano, lo studioso si poneva di fronte all’oggetto e agli strumenti della ricerca, non disdegnando di sollecitare e dare ascolto ai suggerimenti più disparati, se utili.
Ungheria, Impero ottomano e Polonia dominano nel Tamborra modernista, con poche eccezioni. Soprattutto l’ultima restò a lungo al centro dei suoi interessi, sulla scia di un rapporto avviato ancora in giovane età, quando, nel 1938-39, vi si recò a compiere un’esperienza di studio come borsista del ministero degli Affari Esteri, rapporto dimostratosi altamente formativo e fecondo di sviluppi. La relazione che presentò una volta tornato in patria, alla vigilia del nuovo cataclisma bellico, presenta ancora interesse tanto da essere stata pubblicata nel catalogo bilingue della mostra “Natio Polona. Le università in Italia e in Polonia (secc. XIII-XX)”. Il giovane studioso invero, provenendo dagli studi compiuti alla Sapienza e al “Cesare Alfieri” di Firenze, si era accostato all’Europa centro-orientale guardando all’attualità e alla storia più recente, collaborando con l’Istituto di studi politici internazionali di Milano, presso il quale pubblicò nel 1937 L’Intesa baltica. Dopo avere potuto dare alle stampe pochi altri saggi, con l’entrata in guerra dell’Italia, il richiamo alle armi da una parte ne frenò la carriera di studioso per alcuni anni, dall’altra lo portò a recarsi e scoprire il Sud-est europeo che divenne un secondo, preponderante polo della sua attività di studio e, infine, lo sospinse sempre più a guardare, oltre gli eventi correnti, alla storia sia recente, sia, come si è visto, più remota. L’attenzione all’attualità restò confinata a valutazioni marginali degli scritti scientifici o all’attività giornalistica cui dedicò parte delle sue energie per alcuni anni dopo la guerra.
Dell’Europa centro-orientale Tamborra non tralasciò neanche la parte più estrema e vasta, la Russia. Dopo un primo saggio su La Russia tra Oriente e Occidente, essa fece decisa comparsa nella sua produzione scientifica attraverso la presentazione al pubblico italiano di un pensatore “occidentalista” della prima metà dell’Ottocento, Pëtr J. Čaadaev, attirando l’attenzione persino di Croce (e Tamborra ne era molto fiero). E come Čaadaev era un laudator del primo grande occidentalizzatore russo, lo zar Pietro il Grande, a questi e alle sue relazioni con la Santa Sede lo studioso dedicò uno specifico corposo saggio. Era solo un primo passo di una lunga serie di studi riguardanti i rapporti tra il mondo cattolico e quello ortodosso, non solo russo; studi in cui confluirono interessi e approcci diversi e che infine si composero nel grande affresco Chiesa cattolica e Ortodossia russa, pubblicato nel 1992, sulla soglia degli ottanta anni (Tamborra era nato nel 1913). Già nel 1977 era apparso un altro volume di grande pregio e originalità, Esuli russi in Italia 1905-1913 (per i tipi della Laterza, ma ristampato nel 2002 da Rubbettino): uno scavo archivistico di grande puntigliosità e vastità che gli consentì di ricostruire le vicende di numerosi russi presenti nell’Italia giolittiana, verso di loro molto tollerante nonostante l’affiliazione a varie correnti rivoluzionarie. E in quell’opera, più di quanto si fosse palesato in altre, l’autore dimostrò una grande capacità di partecipazione alle vicende umane che raccontava, senza deflettere dall’acribia dell’investigatore, ma riconoscendo e dando dignità ad esse, accanto alle ideologie e alle scelte politiche. Come d’uso nelle sue pagine, ciò avveniva in un “involucro” stilistico di grande pregio e piacevolezza, non del tutto frequente tra gli studiosi di storia.
Un punto centrale della riflessione di Tamborra riguardò la questione delle nazionalità: era inevitabile che così fosse, parlando di pensatori politici dell’Ottocento e di realtà nazionali molto variegate e talora persino in formazione. Nell’ambito degli studi dedicati ai vari popoli dell’Europa centro-orientale, come anche alle loro relazioni con l’Italia risorgimentale, egli mise in luce le diverse nuances che la questione assunse sino agli esiti più pericolosi e perversi. Sapeva cogliere le precoci polemiche tra patrioti italiani e croati negli anni sessanta del XIX secolo (lui che dedicò la sua prima prolusione da cattedratico alla questione di Trieste), dedicava una breve, nuovissima ricerca alla prima guerra combattuta tra due Stati balcanici, quella serbo-bulgara del 1885, investigava i contrasti tra gli opposti nazionalismi alla vigilia e all’indomani della caduta degli Imperi plurinazionali (L’idea di nazionalità e la guerra 1914-1918). Anche il suo libro più noto agli studenti, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920) , pubblicato nella “Storia Universale” dell’editrice Vallardi, è attraversato, nelle sue numerose pagine, da riferimenti continui alla questione delle nazionalità. Nella stessa collana era apparso nel 1960 una non trascurabile “incursione” di Tamborra nel Medio Evo con lo studio Slavi, magiari, romeni alla ribalta della storia. La formazione degli Stati dell’Europa orientale.
Tamborra, al di là dell’impegno profuso per quattro decenni nell’insegnamento universitario, era uno studioso completo, dotatosi con sacrificio e fatica degli strumenti necessari a fare ricerca in modo da attingere risultati originali, seri e credibili; ebbe – come già dicevo – l’umiltà e la disponibilità necessarie per non trasformare il suo sapere e la sua conoscenza del mestiere di storico in un intellettualismo codificato, sprezzante e isolato; serbò fino all’ultimo giorno l’amore e il piacere per lo studio (gli ultimi saggi furono pubblicati pochi mesi prima della sua scomparsa), come anche la percezione della carica di positività che nello studio – se non asservito a secondi fini – trova una sede privilegiata e naturale.

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