Victor Zaslavsky (1937-2009)

AISSECO, “In ricordo di Zaslavsky”, La nostra storia. Blog di Dino Messina, martedi’ 8 dicembre 2009

Victor Zaslavsky era nato a Leningrado, oggi San Pietroburgo, il 26 settembre del 1937. Si era diplomato in ingegneria all’Università (LGU) della stessa città e aveva preso una seconda laurea in Storia nello stesso Ateneo. Aveva lavorato come ingegnere minerario in varie parti dell’Unione Sovietica, viaggiando e fermandosi in località asiatiche ed europee;  in seguito aveva insegnato per alcuni anni Sociologia in Russia. Negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, aveva vissuto con grande intensità e speranza il periodo kruscioviano, di cui parlava e scriveva volentieri; ad esso riconosceva di avergli permesso studi assai più completi, liberi ed approfonditi di quanto sarebbe stato possibile prima, sotto Stalin, e dopo, sotto Brezhnev. Ricordava molto chiaramente le discussioni tra studenti nel 1956, sul rapporto segreto al 20° congresso del PCUS e sull’invasione dell’Ungheria.
Dotato di cultura e vivacità intellettuale non comuni, non aveva tardato a diventare docente universitario. Il colpo burocratico del 1964 contro Krusciov e l’invasione della Cecoslovacchia quattro anni dopo segnarono la fine delle speranze di riforma.  Lo sguardo critico sulla realtà sovietica, che nell’organizzazione universitaria, soprattutto nelle scienze umane (i cui grandi classici di tutti i tempi erano concessi numerati solo alle persone più fedeli e ideologicamente fidate) era ingabbiata in una camicia di forza ideologica, lo rese presto inviso ai controllori e lo fece entrare nel mirino della censura accademica. Da uomo libero, che aveva da subito compreso l’importanza delle scienze sociali e politiche, egli non si sottometteva docilmente ai “burocrati della scienza” e conservava sempre una profonda dignità e indipendenza nel suo lavoro, cosa che suscitò sospetto fin dall’inizio dapprima nei controllori sovietici, quindi nei “programmatori culturali” di ogni tipo, monopolisti di una qualsivoglia cultura ufficiale e conformista.
Quando il Kgb lo scoprì in possesso di scritti di Solzhenitsyn, nel 1974 venne espulso dall’Università. Squalificato sul piano professionale, si vide costretto a lavorare come guida turistica. Tacciato di “inaffidabilità politica” – in un periodo di forte recrudescenza della repressione sovietica verso gli intellettuali e la dissidenza – Zaslavsky l’anno successivo decise di emigrare in Occidente con la famiglia. Dopo aver fatto tappa a Roma proseguì per gli Stati Uniti e il Canada, dove avrebbe insegnato a Berkeley e Stanford, quindi alla Memorial University e alla  St. John’s. In Italia  insegnò nelle Università di Venezia e Firenze per poi stabilirsi alla Luiss di Roma, dove nel 1994 ottenne la cattedra di Sociologia politica per “chiara fama”.
Zaslavsky può essere ascritto alla dissidenza antisovietica solo in senso indiretto. Lui stesso sosteneva: “Non ero un dissidente, ma solo un intellettuale che pensava con la propria testa.” Non aveva messo in atto in Unione Sovietica il contrasto aperto, la critica attiva, la proclamazione del diritto di resistenza al potere tirannico da una parte e dall’altra non era stato legato al e/o diffuso nel samizdat, tutti strumenti tipici questi dell’azione dei membri di quel movimento intellettuale di fondamentale importanza per la lunga opera di erosione del potere assoluto nell’Urss. La sua fedeltà alla ricerca scientifica, alla verità dei fatti, al rigore dello studio, tanto più valido quando più derivante da curiosità e vivacità connaturate, lo portavano su un terreno parzialmente differente rispetto a quello della dissidenza, che era prevalentemente letteraria.  Quello dell’analisi realistica della politica e della società, però, era pur sempre parallelo all’ambito stesso in cui si muoveva il fenomeno del dissenso, con i suoi pregi, i suoi difetti, le sue insufficienze strategiche. Era un campo di studi e d’azione che si caratterizzava per l’uso di metodi e forme di resistenza diverse, seppur gli orizzonti rimanessero gli stessi.
Inoltre, Zaslavsky sarebbe rimasto sempre legato allo stile e al modo di pensare dell’intelligentsija russa, ma con in più una visione molto più marcatamente a tutto campo della cultura, della scienza e del compito dello scienziato e dell’intellettuale. Zaslavsky era legato profondamente alla Russia (alcune pagine degli anni Ottanta ne rivelavano l’attaccamento estremo), come altri maggiori intellettuali suoi conterranei, convinti ma senza facili illusioni o utopismi della possibilità di una rinascita di questo sfortunato paese; e non lo vedrà mai uscire dal suo campo privilegiato di osservazione, mantenendolo sempre al centro del suo lavoro, anche per i problemi e gli avvenimenti più tragici.
Già in Unione Sovietica, dove aveva sperimentato la solitudine dello studioso che non si accontenta dei luoghi comuni o degli abbellimenti ideologici e che invece persegue la ricerca con impegno e serietà, Zaslavsky aveva approfondito la storia della Russia e dell’Unione Sovietica, della loro collocazione nella storia del Novecento, fino a raggiungere livelli di grande profondità, che gli avrebbero consentito in seguito di essere riconosciuto come uno dei maggiori esperti dell’argomento a livello mondiale. Egli inoltre conosceva molto bene i meccanismi politici del sistema sovietico, il modo di comportarsi della burocrazia, degli strati sociali fagocitati dagli apparati della polizia segreta, i meccanismi del consenso, della repressione e dell’inganno permanente. A questa competenza univa quella di storico di grande levatura, che con la sua libertà e onestà intellettuale, ma anche grande umiltà sa accostarsi ai documenti e analizzarli, gestendo un imponente lavoro d’archivio, quando necessario e se possibile. Già nell’Università sovietica dimostrava una sorta di “tranquillità dello studioso”, che conta sui propri mezzi conoscitivi perché ne conosce il valore. Anche se di fatto le scienze umane finivano devastate nel “tritacarne ideologico” sovietico, Zaslavsky conosceva la rilevanza della metodologia della ricerca in questi campi, l’importanza della teoria quale bussola per orientarsi, il valore dell’elaborazione scientifica, che è naturalmente del tutto indipendente rispetto al paese nel quale si vive e che quindi ha rilevanza universale. Da qui sorgeva in lui il culto per l’analisi spassionata e per i fatti, per le metodologie e per le scoperte di altri paesi, ma anche l’impegno morale che determinate ricerche implicano e che proprio per questo vanno condotte con il maggiore rigore possibile.
Date queste premesse, era inevitabile che la sua vita in Unione Sovietica finisse in rotta di collisione con quella di chi teneva in gabbia le discipline che lo appassionavano. Quasi con una sorta di stupore, Zaslavsky scopriva un poco alla volta i meccanismi della censura, dell’asservimento della scienza, della corruzione di giovani menti costrette non a seguire vie indipendenti di ricerca, ma a servire non solo l’agenda degli studi, dettata dai vertici accademici, ma anche forze totalmente estranee alla ricerca. Già nei primi Anni Settanta egli si era reso conto dello stravolgimento sotto il regime sovietico di discipline come quelle sociologiche e dell’oppressione che questi campi di studi e gli Istituti che li praticavano finivano per subire, con ripetute soppressioni e conseguenti repressioni dei loro membri. Le ricerche equilibrate e documentate alle quali Zaslavsky ha sempre tenuto, non avrebbero mai potuto trovare posto in un quadro così cupo e umiliante.
Il periodo sovietico della sua vicenda di studioso è stato fortunatamente piuttosto breve, perché l’emigrazione gli ha consentito di far fruttare al meglio le sue grandi capacità analitiche. Zaslavsky aveva una concezione delle scienze sociali e politiche, così come di quelle storiche, come di discipline che non sono statiche, ma che si sviluppano e che avanzano secondo il meccanismo dell’evoluzione della stessa conoscenza. La rottura di vecchi schemi storiografici, che risulterà evidente nella parte italiana della sua vita e in temi quali il rapporto fra i vertici del Partito Comunista Italiano e il Cremlino, è tutt’uno con questa logica, nella quale era pienamente inserito e che aveva rielaborato a contatto con le discipline di quel tipo soprattutto in campo anglosassone, ovvero al cospetto di una vera comunità di studiosi, abituata a dibattere e a criticare, ad accettare tendenzialmente le autentiche scoperte quando si rivelano tali e a cancellare le strade risultate fallaci, ricominciando umilmente daccapo.
Le premesse agli studi di maggior valore di Zaslavsky erano in ogni caso già state poste in Russia. Quelle tendenze, che lo avrebbero portato all’autentica distruzione di luoghi comuni, a smontare false convinzioni, a tracciare quadri realistici ed esaustivi del sistema sovietico, derivavano dal suo metodo del tutto libero e indipendente, ascrivibile propri al primo periodo della sua attività accademica e forse addirittura alla sua vita di studente che si orientava fra i mille inghippi del sistema universitario sovietico. Sarebbe un grave vuoto non ricordare come quelle radici influenzassero la dolorosa ricerca, per un russo, sulla tragedia di Katyn, sulle sue cause e responsabilità, sulla verità contrapposta a una grande, interminabile menzogna, che fino a oggi ha impedito di rendere giustizia ai polacchi quali vittime di una violenza inaudita. Rendere giustizia mediante la verità storica è stato il culmine del dovere morale sentito da Zaslavsky nell’ultima fase della sua vita, che trova però radici proprio nel suo periodo russo, nel quale aveva già preso coscienza del valore della verità. Le ultime analisi sulla Russia rivelano una profonda comprensione dei problemi della continuità storica, della politica e delle peculiarità della stessa.
Da ultimo, ancora pienamente riferito al periodo russo della vita di Zaslavsky, non va dimenticato l’ambito nel quale si è dimostrato anche scrittore di talento. Alcuni suoi racconti brevi, pubblicati in lingua russa, inglese, italiana, tedesca, affondano le loro radici proprio nella vita russa , che appare evidente attraverso il marcato tratto autobiografico. Quei racconti,  infatti, sono densi di esperienza vissuta direttamente alle prese con il sistema politico e burocratico sovietico, con la vita quotidiana e le contraddizioni tipica di quel periodo storico e di quella cultura. Proprio dalla Russia quei racconti traggono la loro carica di saggezza, di umorismo, il loro intrinseco valore di testimonianza, questa volta non più fredda e distaccata, ma partecipata e sentita, come sentito da Zaslavsky era il destino della gente descritta in quelle sue belle pagine.
Trasferitosi in Italia, Victor (Vitsya per gli amici: da buon russo, non poteva rinunciare al vezzeggiativo) per certi versi s’inserì perfettamente in questo paese, per altri ne rimase rispettosamente a distanza. Aveva imparato la lingua in modo eccellente, i suoi motti di spirito e le sue eleganti locuzioni pronunciate con accento inconfondibile erano assai gradevoli. Era però rimasto cittadino canadese e ne parlava, con un lieve sorriso un po’ enigmatico, in termini che significavano  “io sto bene così, che bisogno c’è di cambiare?”
Ciononostante, o forse proprio per questo, la cultura libera italiana gli è debitrice di molte cose. Come una nemesi storica, egli ha contribuito in modo decisivo a smontare le mitologie, positive e negative, costruite dai togliattiani, senza però mai degenerare nell’ideologia o nel livore settario dei suoi detrattori: della “svolta di Salerno” si è già molto parlato, mentre pochi conoscono la vicenda del dott. Vincenzo Palmieri, un medico napoletano che aveva partecipato alla riesumazione delle vittime di Katyn e che per questo era stato pesantemente ostracizzato dal PCI, che non poteva perdonargli l’onestà intellettuale. Per merito di Zaslavsky, la sua vicenda è stata riportata alla luce dopo la guerra fredda, in un libro che è diventato un classico della storiografia internazionale. Al suo funerale, nella sua Università, era presente la comunità degli storici quasi al completo e molti studenti, grati per la sua disponibilità, così diversa dalle chiusure baronali. Tra gli oratori era presente il figlio Sasha, docente di fisica presso la prestigiosa Brown University, che ha pronunciato poche parole, ma profonde ed efficaci, con l’identico timbro di voce e lo stesso accento russo del padre: un vero maestro, che non sarà dimenticato.

Il Dissenso nell’Unione Sovietica. Di Alessandro Vitale

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